L'opera è tradizionalmente attribuita ad Anton Domenico Gabbiani, come attesta anche una vecchia iscrizione sette-ottocentesca in un foglietto applicato sul retro della tela con il nome del pittore e la data 1698. Il dipinto, di pregevole qualità, può essere incluso tra le opere eseguite dall'artista fiorentino, discepolo di Vincenzo Dandini e personalità di spicco nell'ambiente mediceo di Cosimo III e del Gran Principe Ferdinando, che lo protessero e gli commissionarono numerose opere, decorazioni a fresco in Palazzo Pitti, Teatro della Pergola e nella villa di Poggio a Caiano. Ultimo caposcuola della pittura fiorentina del Seicento, il Gabbiani, accanto alle esuberanze barocche di gusto cortonesco, indulge in questo dipinto a recuperare la tradizione disegnativa fiorentina, realizzando una pittura assai levigata, di stampo classicista, nel taglio compositivo della scena e nel carattere quasi scultoreo della dea resa nei volumi sodi e torniti dalla luce (Laura Martini).