Il ritratto, segnalato dal Brogi (1863) come opera di Federico Fiori detto il Barocci, viene assegnato da Laura Martini a Tiberio Titi o Tiberio di Tito, figlio del più noto Santi di Tito collaboratore di Giorgio Vasari e protagonista della nuova pittura sacra controriformata, per il carattere di forte astrazione idealizzante tipico della maniera di questo maestro. Il dipinto poliziano infatti presenta notevoli affinità stilistiche con la produzione di Tiberio Titi, ritrattista della corte granducale prima dell'arrivo del Suttermans (1620/1622) e noto attraverso poche opere certe, come il "Ritratto di Caterina dei Medici" Gonzaga, del 1618 o quello della "Granduchessa Cristina di Lorena" nelle Gallerie Fiorentine. In particolar modo i particolari descrittivi dell'abito e dei gioielli indossati dalla gentildonna ricordano assai da vicino l'abbigliamento del "Ritratto di Claudia de' Medici" giovinetta delle Gallerie Fiorentine e il "Ritratto dei figli di Cosimo II, Mattias e Francesco", anch'essi attribuiti al Titi. Alla scuola di Santi di Tito appartengono altri due dipinti esposti in questa sala del Museo, il "Ritratto di cavaliere di Santo Stefano" (cat. n. 99) e il "Ritratto di gentiluomo con fazzoletto" (cat. n. 97).