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In occasione del 450’ anniversario della morte di Giorgio Vasari (Arezzo 1511 – Firenze 1574), una delle più importanti protagonisti del ‘500 toscano, anche Montepulciano ha voluto ricordare il poliedrico artista aretino, rendendo omaggio alla sua figura di primo storico dell’Arte Italiano, con la stesura, a metà del XVI sec. del primo trattato moderno di storia dell’arte, “Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori” dedicato al Duca Cosimo dei Medici, che rimane ancora ad oggi un caposaldo per lo studio del Rinascimento e uno dei trattati di storia dell'arte più pubblicati e tradotti.
Sfruttando la ricchezza della collezione esposta presso il Museo Civico Pinacoteca Crociani, con questa iniziativa andremo a tracciare una sorta di percorso virtuale, contraddistinto da un apposito QR code che troverete accanto alle opere, che andrà ad unire tutte le opere custodite all’interno del museo, che sono state realizzate o che sono riconducibili ad autori che hanno trovato menzione all’interno della celeberrima opera del Vasari, andando così a farvi conoscere più da vicino questi artisti, ed allo stesso tempo a ricordare ed a celebrare l’inestimabile contributo offerto dall’artista toscano alla storia ed allo studio dell’arte.
- Andrea della Robbia (1435 – 1525)
- Domenico Beccafumi (1486 – 1551)
- Filippino Lippi (1457 – 1504)
- Giovann’Antonio Lappoli (1492 – 1552)
- Raffaellino del Garbo (1466 – 1524)
- Luca Signorelli da Cortona (1441/45 – 1523)
Andrea della Robbia (Firenze 1435 – Firenze 1525/28)
Nipote di Luca della Robbia, ovvero figlio di suo fratello Marco, fu come lui specializzato nella tecnica della ceramica policroma invetriata, inventata proprio da suo zio. Si deve anche alla sua opera, come capobottega dell’officina ereditata da suo zio la grandissima diffusione dell’arte della terracotta invetriata, anche se, a differenza dello zio, egli si ispirò più all’arte contemporanea, della bottega di Verrocchio ed i suoi allievi. Le sue opere più famose, contraddistinte dalla bicromia bianco e blu, sono disseminate tra chiese e palazzi della Toscana e dell’Umbria, e nel nostro museo potrete osservare la straordinaria “Pala di Fontecastello: Dio Padre in Gloria e angeli”, commissionata all’artista dal Comune di Montepulciani per il convento di Fontecastello nel 1484, la “”, che era posta ai lati della pala nel Convento di Fontecastello insieme all’”Angelo annunciante”, che vanno a comporre il gruppo dell’Annunciazione, custoditi in questo luogo a partire dal 1960.
La collezione del Museo Civico Pinacoteca Crociani ospita altre opere del celebre artista fiorentino, come il “San Giovanni Battista”, sempre in terracotta invetriata e che faceva presumibilmente parte di una pala d'altare distrutta, forse identificabile con una delle "tabulas" commissionate dal Comune di Montepulciano ad Andrea Della Robbia per il convento di S. Maria a Fontecastello, come risulta da una deliberazione consiliare del 1484, il dossale d’altrae “Madonna con Bambino, San Bartolomeo e santo apostolo” realizzato in collaborazione con la bottega e forse con lo stesso figlio Marco (1468 - 1535 ca.), e “Madonna con Bambino San Giovanni Battista e Sant'Antilia” di cui si ignora l'originaria provenienza, ma con molta probabilità era un tempo collocata sopra la porta d'accesso dell'antica pieve di Santa Maria, demolita nel XVII secolo per far posto all'attuale Cattedrale.
Una curiosità che si apprende dall’opera del Vasari a riguardo del nostro artista, è realtiva al segreto della lavorazione degli invetriarti di terra, ed alla sua diffusione, che secondo quanto riportato dalle “Vite”, fu rivelato a Benedetto Buglioni, che portò l’utilizzo di tale tecnica fuori da Firenze, «da una donna, che uscì di casa d'Andrea della Robbia».
Domenico Beccafumi (Monteaperti, 1486 – Siena, 1551)
Domenico di Jacopo di Pace, soprannominato in giovane età Mecherino, e comunemente conosciuto come il Beccafumi, risulta essere tra i più importanti e riconoscibili fondatori del cosiddetto manierismo, ed insieme al Sodoma (nonostante questo fosse considerato forestiero) l’ultimo artista di grande influenza della scuola senese.
Dalle pagine dell’opera del Vasari ad esso dedicate, si apprende che Domenico, figlio di un contadino che prestava servizio nel podere di Lorenzo Beccafumi nei pressi Siena, era dotato di un talento puro e di una naturale predisposizione all’arte che «per dono solo della natura si vide in Giotto et in alcun altro di que’ pittori de’ quali avemo infin qui ragionato», talento che non passò inosservato al Beccafumi, che vedendo le doti artistiche del fanciullo, lo prese in casa e lo fece studiare presso una bottega di un pittore senese, che come sostiene il Vasari era di «non molto valore» ma che «tuttavia quello che non sapeva egli, faceva imparare a Mecherino da’ disegni che aveva appresso di sé di pittori eccellenti, de’ quali si serviva ne’ suoi bisogni, come usano di fare alcuni maestri che hanno poco peccato nel disegno», tra i quali Pietro il Perugino, che frequentava l’ambiente senese, e che influenzò in maniera preponderante la concezione della pittura del giovane Domenico.
Fu così che il giovane si congedò dal suo Signore, Lorenzo Beccafumi, da cui ereditò il cognome, per trasferirsi a Roma dal 1510 al 1512, ospite da un pittore con cui lavorò nel periodo romano, dove ebbe modo di entrare in contatto e studiare i più importanti artisti dell’epoca come Michelangelo e Raffaello, senza però produrre opere degne di nota. Di ritorno a Siena, insieme al piemontese, e senese di adozione fin dal 1500 Sodoma, diede inizio ad una lunga e assai prolifica carriera artistica che, svolgendosi quasi interamente a Siena, tranne una brevissima parentesi a Genova alla Corte del Principe Doria, mette in luce l’amore profondo dell’artista per la sua terra natia. In anni agitati da guerre e continue discordie civili, sviluppa con libertà sempre maggiore i principi di luce e di colore che ne costituiscono l'aspetto fondamentale, mettendoli in pratica nella decorazione a graffito e a commesso di marmi diversi, con la quale egli completò il pavimento del duomo fin sotto all'altare maggiore, che gli fece guadagnare già da allora una meritata celebrità giunta sino ai giorni nostri.
Nell’ultima parte della sua vita, come descritto dal Vasari nella sua opera, si era concentrato sulla scultura, «pervenuto all’età di sessantacinque anni, s’affrettò il fine della vita coll’affaticarsi tutto solo il giorno e la notte intorno a’ getti di metallo, et a rinettar da sé, senza volere aiuto niuno» di cui abbiamo come unica testimonianza gli otto Angeli reggicandelabro, in bronzo nelle colonne del Duomo di Siena. Domenico Beccafumi, sempre secondo quanto riportato dal Vasari, morì a Siena il «18 di maggio 1549, e da Giuliano orefice, suo amicissimo, fu fatto sepellire nel Duomo dove avea tante e sì rare opere lavorato» e dove i funerali vennero celebrati «da tutti gli artefici della sua città, la quale allora conobbe il grandissimo danno che riceveva nella perdita di Domenico, et oggi lo conosce più che mai, ammirando l’opere sue».
All’interno del Museo Civico viene custodito il celebre, e molto caro alla città, dipinto di “Sant'Agnese Segni con il modello della città di Montepulciano” che ritrae S. Agnese Segni, patrona di Montepulciano e fondatrice nel 1306 del noto Santuario a lei intitolato, situato fuori della Porta al Prato, attribuito al pittore senese solo nel 2015, a seguito di un’approfondita ricerca condotta nel ricchissimo Archivio delle Biblioteca Comunale di Montepulciano, dove furono ritrovati documenti che attestano il pagamento a favore di “Domenicho dipentore” per l’esecuzione di una “Sancta Agnese”, per essere esposto tra le due finestre dell’attuale sala del Consiglio. Oltre ai documenti custoditi in archivio, ed allo stile dell’opera, un aiuto importante per la veridicità dell’attribuzione ci giunge proprio dall’opera del Vasari che stiamo ripercorrendo, in quanto essa ci dice che tra il 1506 e il 1507, epoca a cui possiamo far risalire il dipinto, a Montepulciano fu presente come podestà il senese Lorenzo Beccafumi, che aveva preso sotto la sua ala protettiva il giovane pittore Domenico, al quale successivamente avrebbe dato anche il proprio cognome.
Filippino Lippi (Prato, 1457 – Firenze, 1504)
Filippo Lippi, detto Filippino Lippi per distinguerlo dal padre, il celebre pittore Fra Filippo di Tommaso Lippi, è un pittore fiorentino, allievo del Botticelli, la cui pittura è stata definita tra le più rappresentative del passaggio verso il manierismo, avvenuto in Firenze alla fine del XV. Dalla lettura delle “Vite” del Vasari, si apprendono nozioni assai singolari per quanto concerne le sue origini. Egli risulta infatti essere figlio, come sopra detto, del celebre pittore Fra Filippo di Tommaso Lippi, che nonostante fosse un uomo di chiesa, usando le parole del Vasari «era tanto venereo che vedendo donne che gli piacessero, se le poteva avere ogni sua facultà donato le arebbe..», il quale durante un suo soggiorno a Prato per lavorare agli affreschi del Duomo, fu nominato Cappellano nel Convento di Santa a Margherita a Prato, dove si invaghì della monaca agostiniana Lucrezia Buti, figlia del fiorentino Francesco, mercante di seterie, la quale, come racconta il Vasari «aveva bellissima grazia et aria…» che egli «tanto operò con le monache che ottenne di farne un ritratto per metterlo in una figura di Nostra Donna per l’opra loro; e con questa occasione innamoratosi maggiormente, fece poi tanto per via di mez[z]i e di pratiche, che egli sviò la Lucrezia da le monache e la menò via il giorno [1° maggio] appunto ch’ella andava a vedere mostrar la Cintola di Nostra Donna, onorata reliquia di quel castello».
Dalla ragazza, che sempre da quanto si apprende dal racconto vasariano «per paura o per altra cagione non volle mai ritornare, anzi starsi con Filippo, il quale n’ebbe un figliuol maschio, che fu chiamato Filippo egli ancora, e fu poi come il padre molto eccellente e famoso pittore». In questo modo singolare, e forse anche romanzato dal Vasari, inizia la storia del nostro Filippino Lippi, a cui dedica un capitolo della sua opera. Egli viene definito come pittore «di bellissimo ingegno e di vaghissima invenzione»…« il quale seguitando nella pittura le vestigie del padre morto, fu tenuto et ammaestrato, essendo ancor giovanetto, da Sandro Botticello» (Botticelli fu uno dei migliori allievi del padre) e che « meritò coprire con la grazia della sua virtù l'infamia della natività sua».
Da un punto di vista del giudizio critico il Vasari presenta il nostro pittore esaltandone la bizzarria antiquaria, sostenendo che «di tanto ingegno Filippo e di sì copiosa invenzione nella pittura e tanto bizzarro e nuovo ne’ suoi ornamenti, fu il primo il quale a' moderni mostrasse il nuovo modo di variare et abbellisse ornatamente con antichi abiti e veste soccinte le figure che e' faceva. Fu primo ancora a dar luce alle grottesche, che somiglino all'antico […]. Maravigliosa cosa era vedere gli strani capricci che nascevano nel suo fare», come testimoniano due dei suoi più importanti lavori, l’affresco della Cappella di famiglia del Cardinale Oliviero Carafa a Roma, in Santa Maria Sopra Minerva, ed il ciclo in Santa Maria Novella per la cappella Filippo Strozzi, che offrono un’immagine nitida della crisi politica e religiosa che la Città di Firenze stava attraversando in quel periodo storico con le vicissitudini del Monaco Savonarola. Filippino Lippi morì all’età di 45 anni di «sopraggiunto da febre crudelissima e da quella strettezza di gola che volgarmente si chiama sprimanzia, in pochi giorni si morì» (per sprimanzia si intende una forma di angina fulminante) e gli fu data sepoltura in S. Michele Bisdomini, «e mentre si portava a sepellire si serrarono tutte le botteghe nella via de’ Servi, come nell’essequie de’ prìncipi uomini si suol fare alcuna».
Nel nostro Museo è custodito il dipinto “Madonna col Bambino e San Giovannino”, considerata opera proveniente dalla bottega del pittore fiorentino, dove la parte con la figura di Cristo sulla croce e gli angeli che raccolgono nel calice il sangue del Salvatore, è una derivazione dalla pala con la "Crocifissione, la Vergine e San Francesco" realizzata dal Lippi nel 1496, su commissione del "piagnone" Francesco Valori, per la Cappella Valori nella Chiesa di S. Procolo a Firenze, andata distrutta nel 1945.
Giovanni Antonio Lappoli (Arezzo, 1492 – Arezzo, 1552)
Giovanni Antonio Lappoli, figlio del pittore Matteo di ser Jacopo di Bernardo, una volta rimasto orfano di padre, decise di intraprendere la strada della pittura entrando nella bottega Domenico Pecori, artista che di Matteo era stato condiscepolo presso Bartolomeo della Gatta. Dopo la morte della madre, e lo sposalizio della sorella con uno degli uomini più ricchi di Arezzo, Giovanni Antonio Lappoli corona il suo desiderio di andare a vivere a Firenze, dove, secondo quanto ci riferisce il Vasari, rimase colpito dalla pittura di Andrea del Sarto e di Jacopo da Pontorno, Sempre da quanto si apprende dall’opera del Vasari, il giovane Lappoli «si stava sospeso a quale di loro dovesse appigliarsi, quando scoprendosi la Fede e la Carità fatta dal Pontormo sopra il portico della Nunziata di Firenze, deliberò del tutto d’andare a star con esso Puntormo, parendogli che la costui maniera fusse tanto bella, che si potesse sperare che egli, allora giovane, avesse a passare inanzi a tutti i pittori giovani della sua età, come fu in quel tempo ferma credenza d’ognuno. Il giovane pittore si dedica con grande spirito e volontà allo studio ed alla pratica dello stile pittorico del maestro che si era scelto, ma essendo ospite di Raffaello di Sandro detto Lo Zoppo, cappellano di S. Lorenzo e «prete galantuomo e dilettandosi di pittura, di musica e d’altri trattenimenti, praticavano nelle sue stanze, che aveva in San Lorenzo, molte persone virtuose» conosce Antonio da Lucca, «musico e sonator di liuto eccellentissimo», dal quale apprende anche a suonare lo strumento, ma che però, stando a quanto ci riferisce il Vasari, rallenta e complica il suo percorso di crescita pittorica.
Nella dimora de Lo Zoppo conosce comunque anche altri eccellenti pittori, come Il Rosso Fiorentino, Giovan Battista di Iacopo. Comunque, in questi anni, seppur la sua passione sembrava raffreddarsi, collaborò all’esecuzione di alcune opere del Pontormo e ne eseguì altre autonomamente, tra le quali il Vasari ricorda diverse Madonne e ritratti, in particolare quelli dei suoi amici Antonio da Lucca e Raffello di Sandro, opere oggi sconosciute. Sempre a Firenze conobbe Perin del Vaga che, fuggito da Roma a causa della peste, si era stabilito anche lui presso Raffaello di Sandro, e con il quale abbondonò Firenze per tornare ad Arezzo, sua terra natia, sempre a causa della peste. La parentesi aretina non durò molto, e dopo pochi anni, passata l’ondata di peste, il nostro Lappoli si trasferisce a Roma, al seguito di Paolo Valdambrini, segretario di Clemente VII, che si fermo ad Arezzo di ritorno dalla Francia, dove ebbe modo di conoscere il nostro giovane artista. Nella città eterna ritrovò il Rosso Fiorentino e Perin del Vaga e conobbe Sebastiano del Piombo e il Parmigianino, Francesco Mazzola, con il quale condivideva la passione per il liuto, e dove si impegnò nella esecuzione di una Madonna a grandezza naturale che intendeva presentare al papa con la mediazione di Valdambrini; ma nella primavera del 1527 il progetto fallì a causa delle drammatiche vicende del sacco di Roma, durante il quale il Lappoli venne fatto prigioniero dagli Spagnoli, da cui riuscì fortunosamente a fuggire ed a fare ritorno nella sua città natale, in condizioni disagiate, presso lo zio, il canonico Giovanni Lappoli detto Pollastra, dove fu incaricato di realizzare una tavola per l'altare maggiore di S. Francesco, raffigurante l'Adorazione dei magi con i ss. Francesco e Antonio da Padova, che realizzò con l’aiuto di un disegno del Rosso, fuggito a sua volta da Roma ed impegnato a dipingere la Deposizione dalla Croce a Borgo San Sepolcro, ed il disegno, di cui ad oggi si sono perse le tracce, fu di proprietà dello stesso Vasari.
Tale episodio va a rinsaldare il rapporto di amicizia tra il Lappoli ed il Rosso, che addirittura si trasferisce ad Arezzo, ma ciò costituisce una svolta negativa nella vita del pittore aretino, in quanto, in onore dell’amicizia ritrovata il Lappoli si fa garante per un opera che era stata commissionata al Rosso, il quale scompare senza completare l’opera, e costringendo il Lappoli ad anticipare una notevole somma, che non recuperò mai. Furono anni molto difficili, tant’è che per alcuni anni se ne perdono le tracce per ricomparire in occasione di una visita ad Arezzo del Duca Alessandro de’ Medici, disegnò una prospettiva per una commedia scritta dallo zio Lappoli e allestita dalla Compagnia degli Infiammati in onere del Duca. Numerose furono comunque le opere realizzate dal Lappoli ad Arezzo e dintorni, di cui il Vasari da notizia nella sua opera, ma che oggi risultano scomparse. Il Lappoli. visse i suoi ultimi anni ad Arezzo con la moglie e i figli, divenuto benestante e «vivendo d'entrate e degli uffizii», fino alla morte avvenuta nel 1552 per una «febbre acutissima».
Due sono le opere del Lappoli conservate nel nostro Museo, e nello specifico “Immacolata Concezione e Santi”, una grande pala che costituisce uno dei più grandi capolavori del pittore aretino a noi noti, in cui emerge con forza e chiarezza la vicinanza allo stile coevo del Bronzino e di Vasari, mentre l'invenzione iconografica è ancora debitrice di quella già approntata da Pollastra per l'affresco del Rosso nella aretina Madonna delle Lagrime e riproposta da Vasari nel 1540 per l'altare di Bindo Altoviti in Ss. Apostoli a Firenze. L’altra opera, di cui non si hanno notizie certe, è il “Cristo Flagellato” assegnata da Laura Martini al pittore aretino in virtù delle evidenti affinità con la pala appena descritta.
Raffaelino del Garbo (San Lorenzo a Vigliano, 1466 – Firenze, 1524)
Raffaello dei Carli, meglio conosciuto come Raffaello del Garbo, , deve questo nome al vezzeggiativo di Raffaellino, con cui veniva chiamato sin dalla giovane età ed alla via dove era ubicata la sua bottega tra il 1513 ed il 1517, Via del Garbo, attuale Via della Condotta. Il Vasari inizia a parlare del nostro pittore come di una delle più grandi “promesse” dell’arte dell’epoca, che «nella sua gioventù disegnò tanto quanto pittore che si sia mai esercitato in disegnare per venir perfetto», e le sue prime opere appaiono stilisticamente impeccabili, come ad esempio, sempre secondo quanto riferito dal Vasari, la «Minerva, intorno alla sepoltura del cardinal Caraffa, v’è quel cielo della volta tanto fine che par fatta da miniatori, onde fu allora tenuta dagli artefici in gran pregio» ma che purtroppo non fu in grado di soddisfare le aspettative su di lui gravanti.
Raffaellino del Garbo fu allievo di un'altra nostra conoscenza, Filippino Lippi, di cui nella sua opera risulta ben osservabile lo stile, insieme all’influenza del Pinturicchio e di Lorenzo Cedi. Raffaellino, come detto anche all’inizio, era stimato come uno dei migliori giovani pittori della sua epoca, e la sua produzione è sicuramente importante, basti citare la pala della resurrezione di Cristo, commissionata dalla famiglia Capponi per la cappella che gli stessi avevano fatto costruire sotto la Chiesa di San Bartolomeo a Monte Oliveto, una tavola raffigurante la pietà per la Chiesa di Santo Spirito a Firenze, l’affresco Moltiplicazione dei pani e dei pesci nel convento fiorentino di S. Maria Maddalena dei Pazzi (che rappresenta l’unico affresco del pittore arrivato sino ai giorni nostri). Secondo quanto apprendiamo dal Vasari quindi, l’opera del pittore era molto prolifica, ma ciò comportò un sorta di appiattimento della sua arte, in quanto seppur egli «non mancava di studio, diligenzia e fatica, ma poco gli valeva: là dove si giudica che, venuto in famiglia grave e povero, et ogni giorno bisognando valersi di quel che guadagnava, oltreché non era di troppo animo e pigliando a far le cose per poco pregio, di mano in mano andò peggiorando, ma sempre nondimeno si vedde del buono nelle cose sue…e così, invecchiando, declinò tanto da quel primo buono che le cose non parevano più di sua mano: et ogni giorno l’arte dimenticando, si ridusse poi, oltra le tavole e quadri che faceva, a dipignere ogni vilissima cosa; e tanto avvilì che ogni cosa gli dava noia, ma più la grave famiglia de’ figliuoli che aveva, ch’ogni valor dell’arte trasmutò in goffezza…». Morì all’età di 58 anni, infermo ed in stato di povertà, e viene sepolto dalla Compagnia della Misericordia in San Simone di Firenze.
Suo figlio Bartolomeo, detto il Bontaca, fu pittore; s'iscrisse all'arte dei medici e speziali, ma non fu un pittore di successo, tant’è che il Vasari lo ricorda solamente per aver svendto, a poco prezzo, gran parte della produzione artistica del padre. Il pittore Fiorentino, anche probabilmente grazie alla sua enorme prolificità, è stato oggetto anche di una sorta di giallo tra gli studiosi, in quanto alcune opere datate e firmate hanno dato origine a lunghe discussioni: infatti la tavola ora nei magazzini di palazzo Pitti reca la firma "Raphael de Caponibus" mentre la Messa. di s. Gregorio (ora a Sarasota) è segnata con il nome di "Raphael Karli" e "Raphael de K(a)rolis" è firmata La Madonna con il Bambino e due santi (ora a San Francisco). Una firma apparentemente diversa, "Raphael de Florentia", compare poi nella tavola con Madonna e santi in S. Maria degli Angeli a Siena (Gamba). Questa diversità di iscrizioni ha indotto alcuni critici, a partire dal Milanesi (1879), a scindere la personalità del C. in quella di due o tre (o anche più) pittori contemporanei, nonostante che il Vasari e l'Anonimo Magliabechiano parlino di un solo artista di quel nome. Dopo i contributi di alcuni importanti studiosi alla tesi dell'unità del personaggio (Ulmann, 1894; Van Marle, 1931; Scharf, 1933; Neilson, 1938), una definitiva chiarificazione è stata fornita nel lungo saggio sul pittore di M. G. Carpaneto, che ne ha anche ricostruito l'attività. Ultima curiosità su questa artista è relativa al ritratto che avete visto all’inizio di questo paragrafo, in quanto il Vasari ci dice che è stato ricavato da un disegno in possesso di Bastiano da Montecarlo, uno degli allievi di Raffaellino del Garbo.
L’opera di Raffaelino del Garbo che custodiamo nel nostro muso è la tavola olio su tela “Madona con Bambino”, originariamente erroneamente attribuita al pittore senese Giacomo Pacchiarotti. La tavola deriva la sua composizione dall'affresco staccato di analogo soggetto pubblicato dal Berenson come opera di Raffaellino (già Kilston Park, Kent, Viscountess Chilston) e dal disegno realizzato per il gruppo centrale della pala della "Madonna con Bambino e santi" nella Chiesa di Santa Maria degli Angeli a Siena, firmata dall'artista e datata al 1502.
Luca Signorelli da Cortona (Cortona, 1441/45 – Cortona, 1523)
Luca Signorelli nacque a Cortona quale figlio unico di Gilio di Luca di Angelo di maestro Ventura e di Bartolomea di Domenico di Schiffo. Il padre e i suoi avi furono per diverse generazioni pittori a Cortona. Nel corso della sua vita svolse un’intensa attività al servizio dell’amministrazione della Città di Cortona ricoprendo tra il 1480 e il 1523, in dodici occasioni, la carica di priore; fu inoltre eletto dieci volte nel Consiglio dei diciotto e dodici volte nel Consiglio generale della Città. Il Vasari, all’interno del paragrafo dedicato al pittore, lo presenta ai lettori come «pittore eccellente, del quale secondo l’ordine de’ tempi devemo ora parlarne, fu ne’ suoi tempi tenuto in Italia tanto famoso e l’opere sue in tanto pregio quanto nessun altro in qualsivoglia tempo sia stato già mai, perché nell’opere che fece di pittura mostrò il modo di fare gl’ignudi e che si possono sì bene con arte e difficultà far parer vivi». Sempre secondo quanto riferito dal Vasari (ipotesi che trova conferma anche da Pacioli 1494) Luca Signorelli fu «creato e discepolo di Pietro dal Borgo a San Sepolcro, e molto nella sua giovanezza si sforzò d’imitare il maestro, anzi di passarlo». Il Pietro dal Borgo a San Sansepolcro a cui si riferisce il Vasari è ovviamente il celebre pittore aretino, Piero della Francesca, uno dei maggiori esponenti della pittura del ‘400. La maggior parte della produzione artistica del Signorelli si concentra nel centro italia, nei territori prossimi al suo luogo natio, quali Arezzo, Perugia, Città di Castello, Orivieto, la stessa Cortona, dove aveva il proprio laboratorio, e da dove, stando a quanto ci narra il Vasari nella vita dedicata all’artista.
Il Vasari fa un elenco di queste opere, e si sofferma nell’abilità del pittore di ritrarre nudi, come ad esempio nel dipinto realizzato nella «chiesa di S. Francesco alla cappella degl’Acolti fece per messer Francesco, dottore di legge, una tavola, nella quale ritrasse esso messer Francesco et alcune sue parenti. In questa opera è un S. Michele che pesa l’anime, il quale è mirabile, e in esso si conosce il saper di Luca nello splendore dell’armi, nelle reverberazioni, et insomma in tutta l’opera; gli mise in mano un paio di bilanze, nelle quali gl’ignudi che vanno uno in su e l’altro in giù sono scórti bellissimi.». Tra le varie opere del Signorelli, una menzione speciale va fatta per la Cappella della Chiesa principale di Orvieto, che era stata già iniziata «da fra’ Giovanni da Fiesole, nella quale fece tutte le storie della fine del mondo con biz[z]arra e capric[c]iosa invenzione: angeli, demoni, rovine, terremuoti, fuochi, miracoli d’Anticristo, e molte altre cose simili; oltre ciò ignudi, scórti e molte belle figure, immaginandosi il terrore che sarà in quello estremo e tremendo giorno». A riguardo di quest’opera del Signorelli, merita menzione anche un collegamento con il padre della psicanalisi moderna, Sigmund Freud, il quale, durante uno dei suoi numerosi viaggi in Italia si recò a Orvieto proprio per visitare la Cappella, e ne rimase affascinato ammirando lungamente le storie dei dannati e, soprattutto, osservò la figura dell’Anticristo. Il Cristo, che aveva come suggeritore il demonio, lo stimolò a riflettere sul concetto di “doppio perturbante”, sull’altro io dell’io.
Quando uscì dalla Cappella sembra che lo scienziato-viaggiatore fosse tanto turbato da decidere di non andare a Roma e di mutare il percorso del suo viaggio. Si verificò inoltre un episodio che costrinse Freud a riflettere a lungo sulla memoria. In quanto si rese conto di ricordare perfettamente gli affreschi e le sensazioni avute guardandoli, ma di aver dimenticato il nome del pittore che li aveva realizzati. Perché era accaduto un simile fenomeno? Su questo interrogativo scrisse pagine e pagine di autoanalisi, ma restò però sempre fermamente convinto che quelli di Orvieto fossero “i dipinti più belli che abbia mai visto”. Tornando invece a quanto scritto dal Vasari a proposito del nostro artista, non possiamo esimerci dal sottolineare l’enorme stima e considerazione che esso aveva per il Signorelli, tanto da affermare che «non mi maraviglio se l’opere di Luca furono da Michelagnolo sempre sommamente lodate, né se in alcune cose del suo divino Giudizio che fece nella Cappella furono da lui gentilmente tolte in parte dall’invenzioni di Luca, come sono angeli, demoni, l’ordine de’ cieli e altre cose, nelle quali esso Michelagnolo immitò l’andar di Luca, come può vedere ognuno.». Ulteriore curioso aneddoto che si coglie dalla lettura dedicata al Vasari al pittore Cortonese, riguarda l’ultima parte della vita di quest’ultimo, quando oramai anziano, e dopo essere stato a servizio «quasi per tutti i prìncipi d’Italia», se ne ritornò nella sua città natale, Cortona, dove «in que’ suoi ultimi anni lavorò più per piacere che per altro, come quello che, avezzo alle fatiche, non poteva né sapeva starsi ozioso» e realizzò «una tavola alle Monache di S. Margherita d’Arezzo, et una alla Compagnia di S. Girolamo» che furono ovviamente trasportate da Cortona ad Arezzo, ed al trasporto volle prendere parte anche l’anziano pittore, che, come ci racconta il Vasari stesso, riportando ricordi della sua infanzia «alloggiò in casa de’ Vasari, dove io era piccolo fanciullo d’otto anni, mi ricorda che quel buon vecchio, il quale era tutto grazioso e pulito, avendo inteso dal maestro che m’insegnava le prime lettere che io non attendeva ad altro in iscuola che a far figure, mi ricorda, dico, che voltosi ad Antonio mio padre gli disse: “Antonio, poi che Giorgino non traligna, fa’ ch’egli impari a disegnare in ogni modo, perché quando anco attendesse alle lettere, non gli può essere il disegno, sì come è a tutti i galantuomini, se non d’utile, d’onore e di giovamento”. Poi rivolto a me che gli stava diritto inanzi, disse: “Impara, parentino”. Disse molte altre cose di me, le quali taccio perché conosco non avere a gran pezzo confermata l’openione che ebbe di me quel buon vecchio. E perché egli intese, sì come era vero, che il sangue in sì gran copia m’usciva in quell’età dal naso che mi lasciava alcuna volta tramortito, mi pose di sua mano un diaspro al collo con infinita amorevolezza; la qual memoria di Luca mi starà in eterno fissa nell’animo». Luca Signorelli morì all’età di 82 anni, lasciando incompiuta la sua ultima opera, un affresco commissionato dal Cardinale di Cortona, Silvio Passerini nella cappella di un suo palazzo.
L’opera del Signorelli che potete ammirare all’interno del nostro museo è la splendida tavola raffigurante la “Madonna col Bambino”, proveniente dalla chiesa di Santa Lucia di Montepulciano, e parte centrale di un politico più ampio. Le scene raffiguranti l'"Annunciazione", l'"Adorazione dei pastori" e l'"Adorazione dei Magi", appartengono alla predella oggi conservata alla Galleria degli Uffizzi di Firenze.
Intervento “Realizzato con il contributo di Regione Toscana”.